La F1 è uno sport maledettamente difficile. Costoso e competitivo, in rarissimi casi lascia spazio al solo talento. Se poi quest’ultimo non è corredato da un ausilio economico o da un supporto interno di una scuderia, difficilmente un pilota può mettere piede nella massima categoria del motorsport. Per chi ci arriva, tranne rari casi, la gavetta è durissima. Le promesse non mancano ma poi, come spesso succede, ci si trova a piedi o a lottare per il nulla nel fondo della classifica.
E allora capita che un giorno il desiderio di arrivare al vertice assuma sembianze utopiche. Benché la tua maestria al volante non sia affatto messa in discussione, semplicemente, proprio come accade nella vita al di fuori dalle corse, gli astri non si allineano. Se ne hai la possibilità i campionati si sommano e l’immaginario deserto dei tartari descrive la tua umana condizione in F1 contrapposta al sogno di vincere gare e campionati.
Dopo alcuni anni intrappolato in questo limbo per alcuni fortunati si è aperta una possibilità. Un top team bussa alla tua porta in maniera inaspettata e all’improvviso tutto sembra cambiare. Eppure dal primo colloquio ti rendi subito conto come l’interesse su di te non collimi affatto con le tue volontà. Così ti trovi davanti a una scelta: nutrire con fermezza un’ambizione aspettando l’opportunità d’oro che probabilmente non arriva mai, oppure vendere l’anima al diavolo.
L’offerta è chiara: guadagnare molti più soldi, avere la possibilità di realizzare pole position, vincere Gran Premi e fare parte di un grande scuderia. Il tutto corredato da un concetto molto chiaro: sei e resterai per sempre il numero 2.
La massima categoria del motorsport ha prodotto parecchi esempi sulla parabola appena descritta. In attività troviamo il fido Bottas, tappo e disturbatore seriale degli avversari di Lewis e all’occorrenza accaparratore di vittorie quando il britannico non era in palla. Ma senza dubbio, colui che per fatti storici ha recitato tale ruolo aggiudicandosi diversi Premi Oscar come miglior attore non protagonista è Ruben Barrichello, il numero 2 per eccellenza.
Il brasiliano ha accettato di fare la comparsa. La controfigura di un campione come Michael Schumacher. Diversi i bocconi amari trangugiati relativi agli ordini di scuderia quando l’ispirazione era tale da permettergli di battere addirittura il migliore. Ma d’altronde l’accordo era chiaro e i milioni intascati, in qualche modo, hanno senza dubbio lenito i traumi sportivi.
Un penna lontana da perbenismi può essere scomoda in talune circostanze. Ma questo scritto non vuole essere necessariamente polemico. Semplicemente pretende sottolineare come chiamare con il proprio nome le cose non sia affatto sbagliato, mettendo quindi da parte l’ipocrisia, esercizio sciocco che non deve necessariamente nutrire la mentre di un lettore.
A tal proposito, le preoccupazioni di Sainz legate ad un’intervista dove avrebbe denigrato il brasiliano discostandosi dalla sua figura di “eterno sconfitto”, non hanno il perché di esistere per due ragioni ben precise. La prima perché Carlos non ha nemmeno nominato Rubens, limitandosi a parlare del suo ruolo all’interno della Ferrari. La seconda perché se anche lo avesse fatto il concetto non si scosterebbe poi così tanto dalla verità. D’altronde, come diceva un certo signor Enzo Ferrari, il secondo è il primo dei perdenti…
F1-Autore: Hank Barrett – @HankBarrett3
Traduzione: Alessandro Arcari – @Berrageiz
Foto: Scuderia Ferrari