Formula 1

La vera F1? Non esiste!

Chi di voi non ha mai fatto un giro virtuale sulle piattaforme social? Quante volte, interagendo con utenti più o meno sconosciuti, ci siamo trovati ad affrontare una questione che ritengo ormai annosa? Non ho intenzione di creare suspense fasulla, vado immediatamente al cuore della misfatto: “Questa non è la vera F1!”. Siate onesti, ammettete di averlo letto. E forse di pensarlo. O addirittura di averlo urlato dal vostro social network di riferimento (ormai i bar dello sport, tra Covid e società spersonalizzante nemmeno esistono più).

Ci ho provato, negli anni, a ribattere e chi, Verbo nel palmo della mano, esprime certezze dogmatiche basate su percezioni personali che, mi duole dirlo, non hanno alcun valore probante. Il gusto non è legge, la pulsione individuale non ha carattere universale. Facciamocene una ragione. Una volta e per tutte.

F1 2014-2021. Otto anni, otto mondiali. Otto stagioni che hanno lasciato il segno. Che ha la forma della Stella a Tre Punte che ha marchiato a fuoco le membra di ognuno di noi. Un ciclo di trionfi senza precedenti, una monotonia di risultati che ha creato esaltazioni incontinenti e reazioni allergiche pruriginose. E spesso violente. In questi ultimi casi, ossia quando la realtà si fa ingestibile, dura, scomoda e fastidiosa la mente umana si rintana nei suoi atolli di salvezza. Che spesso sono rappresentati da un passato troppo romanzato ed eccessivamente filtrato della nostalgia di quello che fu e che probabilmente non torna più. E scusatemi per l’involontaria rima.

Lewis Hamilton, sette volte campione del mondo di F1

Gli esegeti di questa nuova filosofia con solide e lunghe radici nei tempi andati, religione pagana che avversa la contemporaneità e la normale evoluzione tecnico-scientifica, hanno poche idee. Ma ben chiare. Odiano quel che oggi è la F1. Osteggiano l’apertura mediatica da social di piloti e protagonisti pur lanciando strali dagli stessi social. Contraddittorio, no? Ma questo è l’aspetto meno preponderante.

A colpire come un gancio fatale è una critica su tutta la linea, senza esclusione di colpi: Alle auto in primis. Che sarebbero auto troppo sicure, troppo infarcite di elettronica, troppo “perdonanti” nella guida. Troppo tutto.

Da qui parte un peana al contrario per decostruire ogni elemento su cui si regge la contemporaneità: motori, piste, gli stessi piloti che sarebbero troppo professionali e non si concederebbero alla bella vita mondana e dissoluta, agli eccessi alcolici o alle derive tabagiste che farebbero bene giusto in una Formula Uno oleografica. La nostalgia di un’era dionisiaca che forse nemmeno è mai esistita. Percezioni nostalgiche che scadono in nostomania.

La verità è che è spesso stato l’automotive a seguire le avanguardie tecniche della nostra amatissima categoria sportiva. Una serie che ha sempre proposto innovazione nonostante regolamenti che hanno avuto la funzione di tenere imbrigliata la fantasia dei progettisti per evitare che creassero dei dischi volanti piuttosto che delle monoposto.

il volante della Mercedes W12 – stagione 2021

Cambi al volante, sospensioni intelligenti, studio dei materiali compositi ed ultraleggeri, motorizzazioni turbo-ibride. La lista è lunghissima e non è questa la sede per un algido elenco. Quante sono le novità che la serie ha imposto come nuovi standard produttivi che tutti noi usiamo quotidianamente? Le odierne vetture di F1 sono un inno alla creatività, allo spirito d’adattamento, alla ricerca senza freni. Un’ode all’intelletto umano.

Monoposto il cui cuore pulsante è un V6 turbo-ibido. E qua andiamo all’epicentro del problema. Le unità propulsive odierne, dicono gli insoddisfatti ad oltranza, non scaldano l’anima. Sono poco musicali, non spaccano i timpani, non urlano come galli a cui stanno tirando il collo. Attenzione, fermi tutti! Anche al sottoscritto piacevano i motori aspirati. Ho fatto il debutto sugli spalti nel lontano 1994 in un week end distruttivo per la F1. Sì, ho assistito a quel nefasto GP di Imola che ancora strazia il cuore.

Uno dei celebri V12 aspirati prodotti dalla Ferrari esposto al Museo di Maranello

Ma ricordo anche cose belle di quel fine settimana e degli altri che ho vissuto in quegli anni coi decibel magicamente ed entusiasticamente fuori controllo. Soggiunge alla mente il sound del V12 Ferrari: acuto, rotondo, pieno. Caldo come un assolo di chitarra latineggiante di Al Di Meola. Poi c’erano i V10. Il Renault su tutti. Dalla frequenza meno “cattiva” ma dalla timbrica peculiare nelle cambiate. Una melodia suonata al Mellotron. E poi il V8 Ford. Più basso e discreto. Ma piacevolmente brontolone, scoppiettante in fase di rilascio: bum, bum, bum. Un basso fretless. Jaco Pastorius. Mentre scrivo quei suoni soavi ritornano alla mente. E non nego che la nostalgia salga prepotente. Ma bisogna riprendere il controllo di sé.

Non si può non considerare ciò che abbiamo oggi come altrettanto straordinario. Il sound non può essere una discriminante. Non può esserlo per chi come noi si esalata per l’evoluzione tecnica. E i V6 odierni sono delle gemme di pregevole fattura che combinano fuoco ed elettricità un un mix equilibrato e maledettamente efficace.

Urleranno poco, è vero, ma sprigionano potenze incredibili con un frazionamento molto limitato. Consumando meno di un’utilitaria (vabbè, quasi) e durando quanto il motore diesel di uno Stralis. Che allego in foto perché è un gran bel mostro. E poi mi piacciono i camion…

Il livello di affidabilità raggiunto da questi moderni aggeggi (non i camion) è sorprendente. Questa evidenza è oggi oggetto di strali(s) assortiti (scusatemi, è stato più forte di me). Ma quando i vecchi aspirati appiedavano il vostro beniamino a due giri dal termine ve le ricordate le imprecazioni? Vi divertivate a lanciare oggetti nella tv a tubo catodico del salotto un GP sì e l’altro pure? Io no onestamente. Un po’ di coerenza, perdio!

E’ vero che fino a una decida d’anni fa i piloti se ne fregavano bellamente della gestione del materiale. Spingevano come ossessi non pensando alle conseguenze. Che spesso non erano proprio auspicabili: fumate dal bianco al nero a seconda di cosa prendeva fuoco. Perdite di liquidi a vostro gusto. Incendi in stile “Inferno di Cristallo”. Il professionista odierno deve sapere dosare la foga per far durare quelle bestie che hanno alle spalle. E non si trova sovente a dover salvare la sua stessa auto dalle fiamme.

Ma gestire non vuole dire passeggiare. Tutt’altro. La necessità di tenere alta la performance è viva e tangibile. Un equilibrio di difficile individuazione. Una difficoltà figlia di questa F1. Che è frutto dell’evoluzione tecnica che l’automotive necessariamente fa. Altrimenti compratevi una FIAT Ritmo senza nemmeno gli alzacristalli elettrici. Almeno sareste coerenti…

Jean Alesi a bordo della Ferrari F92A. Non il miglior modello sfornato dalla factory di Maranello

Il mondo progredisce amici miei. Facciamocene una ragione. Non sta scritto in nessun testo sacro infarcito di discutibili dogmi che ogni anno il motorsport debba esigere un tributo di sangue fuori dall’umana tolleranza. La sicurezza ha fatto passi enormi. E parliamo sia della sfera attiva che di quella passiva. Ecco che le macchine a siluro, con i piloti totalmente esposti al vento e ad ogni tipo di pericolo, non possono più esistere. La mitizzazione della morte non ha nulla di epico. E’ masochismo. Fatto tra l’altro col sedere altrui. L’epoca delle arene è sepolta da un pezzo. “Panem et circenses” funzionava per la plebe dell’Impero Romano.

Il discorso sulla sicurezza si riverbera naturalmente anche sui layout dei tracciati sui quali i cavalieri del rischio si sfidano. Il vecchio Nurburgring era spettacolare. Il vecchio Nurburgring (o qualsiasi atro tracciato sprovvisto di ogni minima dotazione di protezione passiva) non può coesistere con la necessità di tutelare la vita dei piloti, degli operatori di pista e dei tifosi assiepati sulle tribune.

Non siamo allo stato naturale hobbesiano-motoristico. La civiltà si è evoluta e regole sempre più chiare hanno consentito di salvare, negli anni, decine e decine di vite umane. Dovremmo esultare per questo. Gioirne. E dovremmo essere felici che l’uomo sappia proteggere se stesso sviluppando tecniche operative più efficaci. In ogni ambito del suo essere.

Jim Clark durante il GP di Germania del 1965

Oggi vogliamo la ghiaia perché i track limits individuati da sensori affogarti nel bitume fanno troppo freddamente il lavoro per cui sono progettati. Prima del brecciolino si invocava la terra e gli alberi a bordo pista. Prima ancora pretendevamo di osservare l’evento a due centimetri dei bolidi lanciati alla massima velocità. Ogni era ha la sua nostalgia, ogni epoca i suoi totem arrugginiti da idolatrare. Ed è una cosa normale. Ma non razionale, rendiamocene conto.

Quindi, cosa è la Formula Uno se non una competizione che si adatta al mondo che cambia? Immutabile nella filosofia di base, cangiante nelle caratteristiche. La vera F1 non esiste! Non ci sono degli archetipi immarcescibili che la delineano.

Tra 60 anni le auto potrebbero volare. Ed esisterà una F1 che probabilmente si adeguerà a questa realtà. Negli anni Ottanta di questo secolo ci sarà qualcuno che rimpiangerà gli anni Venti. Non sarò qua per raccontarlo ma di certo avverrà. E questo pezzo, che è frutto della mia personale opinione che non vuole imporsi a nessuno, avrà ancora la sua valenza. Basterà cambiare qualche data e qualche dettaglio.

F1-Autore: Diego Catalano@diegocat1977

Foto: F1, Ferrari, Mercedes, Iveco

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Pubblicato da
Diego Catalano