Formula 1

Toto Wolff: l’architetto della F1 del futuro

Un tempo l’asse strategico della F1 attraversava l’Europa. Poche erano le gare che si disputavano lontano dal Vecchio Continente che catalizzava a sé attenzioni, sponsorizzazioni e risorse finanziarie. Non che gli altri Paesi non fossero coinvolti nel grande carrozzone, ma il fulcro della categoria aveva confini ben precisi. Negli anni abbiamo assistito ad un riassetto geografico e geopolitico che ha dissolto il vecchio blocco per creare altri centri di gravità sparsi qua e là per il globo.

Negli ultimi decenni del secolo scorso alcune nazioni asiatiche, grazie ad un progressivo sviluppo produttivo, hanno fatto da magnete smuovendo il fulcro del capitalismo industriale verso est. Realtà come Taiwan, Corea del Sud, Singapore, Hong Kong (poi assorbita dalla Cina), MalesiaIndonesiaThailandia e Cina stessa sono divenuti poli d’attrazione per produzioni di massa, a costi contenuti e con specializzazione via via più grande (leggi qui). A queste si stanno recentemente unendo le nazioni riferibili ai detentori dell’oro nero che stanno innaffiando coi loro petroldollari l’intera categoria.

George Russell solidissimo quinto dopo essere partito dodicesimo nel GP di Miami 2022

F1. Il ruolo strategico degli Stati Uniti

Ma non è finita qui. Gli Stati Uniti, che da sempre hanno avuto interessi economici nella serie, hanno preso sempre più potere. E spazio. Inutile dire che l’accelerazione decisiva è arrivata quando Liberty Media ha acquisito il pacchetto azionario della F1 dalla mani di Bernie Ecclestone. Alla presenza della Haas si è dunque unita quella del colosso dell’intrattenimento che ha iniziato a far sentire il suo peso specifico cambiando radicalmente la comunicazione e introducendo elementi tipici del motorsport di marca USA.

Uno sviluppo ancora in corso di svolgimento che, tra le altre cose, ha portato ad avere due gare sul suolo della confederazione americana (Miami ed Austin) e che diverranno tre quando, l’anno venturo, si disputerà il GP di Las Vegas. Elementi che non fanno altro che confermare due evidenze: la prima è che Liberty Media intende spostare il pivot nella terra in cui giacciono le sue attività; la seconda ci dice che il pubblico americano è sempre più attratto dalle vicende che un tempo appassionavano maggiormente gli spettatori europei.

Viene da sé che in questo contesto altre franchigie “made in USA” vogliano affacciarsi alla F1. E’ il caso della Andretti Global, realtà riferibile a Mario Andretti, che da mesi fa pressione per abbracciare il Circus. Tentativi convinti ma che sinora hanno prodotto risultati piuttosto sterili. E soprattutto che hanno incontrato le ritrosie degli altri team che si sono arroccati nelle loro torri d’avorio. Anzi, nei loro caveau.

Ovviamente ci sono i soldi di mezzo. Come sempre. Il regolamento sportivo della F1 prevede che si possa arrivare ad un massimo di 13 team iscritti. Ma non è così automatico superare l’attuale numero di 20 auto in griglia. Le dieci realtà che oggi compongono lo scacchiere del Circus iridato ritengono di aver creato un modello di business molto stabile e decisamente fruttuoso. Per se stessi.

Michael Andretti

Risulta pertanto complicato immaginare che le altre compagini vedano di buon occhio l’ingresso di un altro attore che deve ingurgitare una cospicua fetta di dividendi regolati da un Patto della Concordia la cui stesura ha rischiato, non più di un anno fa, di far saltare l’intero carrozzone. Proprio questo documento decisivo per il funzionamento burocratico della F1 stabilisce che ogni nuovo team che voglia affacciarsi alla categoria deve pagare una vera e propria gabella di 200 milioni di dollari. Una bella cifra. Ma si tratta pur sempre di una soluzione unica che nel lungo periodo non copre affatto le risorse che la presenza di un’altra scuderia assorbe.

Toto Wolff ha ribadito ancora una volta che la prospettiva Andretti non eccita lui e probabilmente i suoi colleghi. E che vede addirittura di buon occhio l’ingresso di un competitor “pericoloso” in termini sportivi come Volkswagen che però ha la virtù di non rompere quel cerchio fatato di dieci concorrenti. “Andretti è un grande nome e credo che abbia fatto cose eccezionali negli Stati Uniti. Ma questo è sport e business, e dobbiamo capire cosa può darci” ha spiegato Wolff come riportato da Motorsport.

Se un’azienda o un gruppo internazionale e multinazionale entra in F1 e può dimostrare che spenderà una quantità di dollari per l’attivazione e il marketing nei vari mercati, è ovviamente una proposta di valore completamente diversa per tutti gli altri team. Con 10 posti si spera sempre che aumenti il valore. Di certo non accadrà dandone di nuovi a persone che non possono aumentare il valore complessivo della F1“.

F1. I team principal: Christian Horner (Oracle Red Bull Racing F1), Toto Wolff (Mercedes AMG F1) e Mattia Binotto (Scuderia Ferrari F1)

F1. Il Circus non può permettersi l’allargamento

Il discorso del manager viennese è semplice, lucido e lineare: Volkswagen è un soggetto che può, tramite i suoi marchi che portano grande attrattiva mediatico-commerciale, accrescere il valore intrinseco della F1 senza spostare equilibri ormai solidi che generano vantaggi per chi appartiene a quella élite di dieci soggetti. Un nuovo team, tra l’altro senza un motorista alle spalle, non sarebbe in grado di generare valore. Anzi, potrebbe sottrarne e chi ne ha ha acquisito dopo un lungo processo di stabilizzazione tecnica, sportiva e finanziaria.

Wolff si è sovente esposto in prima persona attirandosi le ire funeste degli Andretti, ma la sua visione strategica è ampiamente condivisa in F1. Red Bull e Ferrari sono sulla stessa lunghezza d’onda, gli altri team traccheggiano ma sostanzialmente si godono lo status quo con gli annessi benefit politico-finanziari. L’unica squadra che ha tiepidamente caldeggiato la causa Andretti e l’Alpine che non è stata mossa da una magnanimità sportiva visto che sperava – e tuttora lo fa – di allocare i suoi V6 ad una compagine cliente. Cosa molto difficile stante l’imminente ingresso del colosso tedesco di Wolfsburg.

Le speranze per Andretti sono dunque ridotte al lumicino nonostante l’asse strategico della F1 sia ormai inclinato verso gli USA. Il paradigma a dieci punte ha garantito la sopravvivenza del giocattolo anche in momenti tempestosi come quelli scaturiti dalla crisi pandemica e dall’aumento fuori controllo dei prezzi cui stiamo ancora assistendo. Volkswagen, a differenza di un assemblatore, sarà in grado di solidificare ulteriormente un torrione uscito indenne da molti attacchi.


Autore: Diego Catalano@diegocat1977

Foto: F1, Mercedes AMG F1 Team, Michael Andretti

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Diego Catalano