#EssereFerrari: dalla parte di Binotto?

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#EssereFerrari: dalla parte di Binotto?


Binotto, ancora lui. Lui che porta la sua croce, una croce che ha intagliato nel legno vivo e ha voluto caricarsi sulle spalle, senza accertarsi di avere la forza necessaria per farlo. Lui che ha fatto tutto da solo, tra mille contraddizioni. Lui che troppo ha voluto, e finora nulla stringe. Criticarlo, oggi, risulterebbe fin troppo facile, alquanto scontato, terribilmente banale. Allora provo a fare uno sforzo immane: cercherò di capirlo, di comprendere certe sue mosse e certi suoi atteggiamenti. Può apparire paradossale. E dunque al paradosso mi affido per iniziare questa disamina, chiedendo in prestito una caustica sentenza a Oscar Wilde: “In questo mondo esistono solo due tragedie. La prima consiste nel non ottenere quello che si desidera, l’altra sta nell’ottenerlo. La seconda è di gran lunga la peggiore: è una vera tragedia.”

Binotto desiderava ardentemente la Ferrari. Anni di militanza a Maranello hanno rafforzato e intensificato il legame con il Cavallino. Le indubbie qualità dell’ingegnere elvetico dal cuore emiliano ne hanno favorito la scalata. Ma, per Mattia, non era abbastanza. Lui voleva la Rossa in modo totalizzante, non gli bastava farne parte, esserne un importante e imprescindibile tassello. Era stanco di lavorare nell’ombra. Così, nel mezzo del cammin della sua vita, alla soglia dei cinquant’anni, realizza che cavalcare sporadicamente il suo destriero rampante non lo soddisfa più. Vuole impugnarne le redini.

Binotto vuole ricreare la sua Ferrari divenendone il punto di riferimento indiscusso. Ha grandi progetti, smisurate ambizioni, sogni coriacei da realizzare. Così, in una gelida mattina di gennaio, riceve ufficialmente il timone del team. Eccolo il desiderio avverato, quello per cui avrebbe sottoscritto un patto con il diavolo. E il diavolo in effetti, aveva già iniziato a mettere sul fuoco la sua pentola. Scoperchiarne il contenuto sarebbe stata solo questione di (relativamente poco) tempo. Ma Mattia ne era ignaro. Ebbro di potere, appagato dal conseguimento del proprio obiettivo, non temeva nulla. Avversari, difficoltà o destino rappresentavano per lui variabili irrisorie, che reputava semplice tenere a bada.

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Sebastian Vettel, Mattia Binotto e Charles Leclerc

Invece il buon giorno non è stato propriamente come da aspettativa e le magagne della SF90 sono emerse fin dall’alba del campionato. La monoposto non ha avuto l’avvio strepitoso da contendente, piuttosto sprazzi e guizzi intermittenti che ne hanno fatto un’ottima comparsa. Le pole position di Leclerc hanno instillato piccole dosi di speranza. Le buone prove di Vettel, come l’indimenticabile rimonta di Hockenheim, hanno dimostrato che, tutto sommato, si poteva ambire a qualcosa di più. Una promessa di mezza estate, dopo la débacle ungherese, si è concretizzata nelle splendide vittorie di Charles a Spa e Monza, nell’emozionante trionfo di Sebastian a Singapore, nel filotto di partenze al palo. Finalmente sembrava giunta l’ora del riscatto. Un ottima premessa in ottica 2020.

Ma il diavolo, come si è detto, era in agguato. E dal suo calderone, pur rimestato a dovere, è salito un indistinto aroma sospetto, che puzzava d’imbroglio più che di zolfo. Il coperchio utile a camuffarne i fumi non faceva parte delle dotazioni offerte da Mefistofele. Così, il potente propulsore Ferrari trasforma il suo ruggito in un più docile belato da agnellino, in perfetta conformità delle norme, ma in disastroso accordo con la vettura che sta per nascere, la sciagurata SF1000. Il motore, che avrebbe dovuto costituirne il cuore pulsante, viene depauperato al punto che la vettura, così progettata, non ha più né capo né coda. Le manca la potenza per andare in testa, l’agilità per destreggiarsi in curva. Resta solo un triste assemblaggio di componenti discordi.

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Mattia Binotto, team principal Scuderia Ferrari

Nel frattempo altre pesanti nuvole minacciano il sogno di Binotto. Non bastasse l’accordo segreto con la FIA a scombinare i piani di Maranello, ci si mette pure una calamità come la pandemia. Il mondo precipita in un’incertezza senza precedenti, in un silenzio innaturale. L’intero pianeta si sospende, mettendo in pausa vite, progetti, mobilità. Un tempo votato all’attesa e al dolore, senza più sicurezze né riferimenti. Tutto da riscrivere, da azzerare, da reinventare. Purtroppo c’è ben poco da fare in casa Ferrari, con una vettura che già ha mostrato i suoi limiti nei test di Barcellona e sulla quale è poi risultato impossibile intervenire a lungo, causa il lunghissimo stop imposto da un’inflessibile quarantena.

La Ferrari, così fervidamente bramata, si sta letteralmente sgretolando tra le mani di Binotto. E qualsiasi decisione, qualsiasi strada egli intraprenda, pare essere solamente un maldestro tentativo di restare a galla. Con il risultato di annaspare ancora di più, in un mare periglioso, perennemente agitato. Ad esempio Mattia prova a smuovere le acque puntando su un nuovo ciclo e una nuova coppia di piloti. Si sbarazza di Vettel senza troppi convenevoli, anzi, con risvolti a dir poco malevoli, e sceglie Carlos Sainz come sostituto. Ma la tempistica e le modalità dell’annuncio vengono gestite in modo ignominioso, deludendo un ampia fetta di tifosi e soprattutto lo stesso Seb, da sempre perfetto uomo squadra.

Così, questa stagione zoppa e anomala, parte con musi lunghi, frecciate e recriminazioni. Un qualcosa di surreale e poco comprensibile, specie ripensando al Binotto del 2019, che si mostrava tollerante e positivo nei confronti dei suoi piloti. Un ‘buon papà‘ autore di qualche rimprovero, ma assolutamente accomodante e pronto, quando necessario, a ergersi in difesa dei suoi ragazzi. Ora, invece, la rottura con Vettel ha inferto uno squarcio difficilmente sanabile, che apre la strada a dichiarazioni pesanti e totalmente fuori luogo. Un team principal che si rispetti non dovrebbe infatti rimarcare le parole di frustrazione di un pilota o definirsi insoddisfatto dopo una gara maiuscola, come quella disputata da Sebastian domenica a Barcellona.

Mattia Binotto e il muretto Ferrari

Certo, esistono delle attenuanti. E con tutta probabilità le esternazioni di Binotto sono figlie di una tensione esagerata all’interno della squadra. Il team radio di Vettel ha mostrato in mondovisione quanto la Ferrari abbia perso la bussola, anche sul fronte strategico. Un team allo sbando, incapace persino di leggere e di guidare la gara dei propri piloti, sovente costretti a inventarsi dei diversivi o a imporsi su un muretto incapace di dare direttive utili e chiare. Tuttavia, un bravo team principal dovrebbe riuscire a gestire situazioni di questo genere, a non lasciarsi sopraffare e ad essere un po’ psicologo. Ma evidentemente Mattia è un uomo razionale, più abituato ad avere a che fare con i numeri che con le persone. Lo sostiene anche Colin Kolles, a suo tempo manager di Hispania e Spyker:

Binotto è un grande ingegnere, ma non è adatto al ruolo di team principal. Secondo la mia opinione un tecnico non può essere a capo di un team di F1. Conosco personalmente Mattia e posso affermare che dà molto più peso ai numeri che all’aspetto emotivo. Ma questo, da manager di un team, non te lo puoi permettere affatto, poiché devi essere in grado di approfondire anche gli aspetti psicologici. Non parliamo poi della situazione di Vettel. Il problema ovviamente non è stato scegliere di non rinnovare, ma la modalità con cui Seb è stato scaricato. Hanno fatto credere che volesse un salario altissimo per continuare, ma questo non era vero. Peggio ancora: hanno annunciato la separazione troppo in fretta, distruggendo la loro stagione prima di iniziarla. I piloti infatti soffrono molto nel momento in cui comprendono di non avere più il supporto della squadra.”

Colin Kolles

L’opinione di Kolles è assai condivisibile nella sua schiettezza. E analizza un aspetto di fondamentale importanza: una squadra, specie una squadra come la Ferrari, deve dimostrare prima di tutto di avere un cuore. Eppure pare che Binotto, a dispetto del suo tanto sbandierato #EssereFerrari, abbia deciso di fare il duro, quasi il gradasso, per sopperire alla sua indole mite che lo rende poco volitivo. Ma per diventare un Toto Wolff non basta fare la voce grossa, perché, per dirla alla Briatore ,”Mattia Binotto non ha il carisma per ricoprire il ruolo che attualmente svolge“.

Dunque il povero Mattia si ritrova a fare i conti con il suo grande desiderio. E questi conti non tornano affatto. La sua Ferrari non è vincente, non è potente. Non ha spirito di aggregazione e sta perdendo la sua anima. Resta solo una piccola fiammella vacillante, che bisogna proteggere dal vento, affinché non si spenga definitivamente. Rappresenta il sacro fuoco che fa vibrare i tifosi, che li elettrizza anche per un settimo posto o per l’eroismo di un sorpasso impossibile. Rappresenta la determinazione e la grinta dei suoi piloti, delusi o bistrattati, che trovano comunque la forza e l’incoscienza per offrirci una manovra da ricordare. Binotto si deve fare vestale e custodire questa fiamma, amarla e difenderla, pur tra mille difficoltà. Solo così renderà onore al vero significato di #EssereFerrari. E al suo ruolo, che ancora deve mostrare di meritare.


Autore: Veronica Vesco – @VeronicagVesco

Foto: Ferrari – Formula Uno

3 Commenti

  1. Facile fare i profeti con il senno di poi Binotto avrà commesso degli errori ma non si può scaricare tutto su di lui. Purtroppo il team Ferrari è osteggiato da tutti e poter lavorare tranquillamente non è facile poi quando si trovano persone che remano contro ancora peggio lasciamoli lavorare in pace senza sentire i soliti giornalisti maestri del sé e del ma.

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